“LA LINEA DEL FRONTE”
di Guglielmo Bertarelli “el Duca”
Dal profondo della terra, in uno slancio che è sete d’infinito, in forte rigorosa tensione ideale, così come vetta si stacca dagli anfratti oscuri della valle per immergersi nell’azzurro del cielo, l’arte di Guglielmo Bertarelli – “el Duca” si firma egli nelle sue opere, per fedeltà ad una storia di intimi affetti familiari – invita ad oltrepassare gli angusti confini della conoscenza meramente intrisa di amorfa temporalità, per affondare le radici nel profondo dell’animo, dentro vicende collettive, silenziosamente consumate in conflitti che sono capitoli drammatici del cammino di una nazione segnato da esistenze mute, anonime, sacrificate, donate, sublimi e perciò non mai spente nel ricordo di chi custodisce il dovere della memoria che è atto di pietà e di riconoscenza.
Del resto anche la pura casualità degli incontri diventa, attraverso l’arte, racconto che si iscrive in uno stesso orizzonte, linfa che dalle radici comuni, seppur lontane, arriva alle estreme propaggini dell’albero della vita.
La sezione camuna dell’Associazione Nazionale Alpini, il suo presidente Ferruccio Minelli (per riassumere in un nome la realtà di una lunga storia di pellegrinaggi, di manifestazioni, di presenze che culminano nella celebrazione solenne delle annuali adunate alpine), per ricordare i novant’anni della fine della prima guerra mondiale, ha scelto come luogo ideale il Montozzo là dove passò il trentino Cesare Battisti. A distanza di quasi un secolo è un artista di origini trentine a raccogliere le idee e gli ideali che pulsano dentro la cronaca dell’anniversario che vuole diventare evento. Questo artista è da qualche tempo figlio della terra camuna. Sarà forse anche per codesta concomitanza e per questa felice circostanza la quale cancella o riduce a nulla ogni differenza di confine o di appartenenza, che Guglielmo Bertarelli – “el Duca” – raccoglie l’invito e lavora duro per mesi e mesi per realizzare l’opera simbolo di una straordinaria ricorrenza che sarà ritrovo, celebrazione, canto e preghiera. “El Duca” compie una prima scelta: l’opera che realizzerà sarà fatta (poeticamente) di ferro e di pietra, il ferro che è stato uno dei fattori economici della civiltà fiorita lungo la Valle dell’Oglio, dall’alba al meriggio, e la pietra, quella silice (ma poteva essere anche granito) che, innervando le montagne camune, è stata irrorata dal sangue dei nostri alpini, al di qua e al di là del Tonale. Con questi materiali altamente simbolici, Bertarelli si mette all’opera e realizza una grande croce, dal colore oscuro come è il colore delle rocce del Montozzo, quando spuntano dal bianco della neve o dal verde dei pascoli. La croce è sorretta da tre gradini che si stringono verso l’alto, anche qui per indicare, con un simbolo, i gradini che salgono all’altare della mensa, e i gradini che portano al cielo. Poi è la volta dell’antenna – esile guglia – della campanella chiamata a scandire le ore del giorno e i momenti salienti della liturgia. Infine l’asta della bandiera, perché il rito nella sua universalità si nutre di storie di uomini, vissuti e viventi qui, ora, in questo luogo e non altrove: questi uomini hanno una casa e dunque hanno una patria. Alla fine lo sguardo, anziché disperdersi, converge sempre su affetti e sentimenti che sono segni di un destino comune, di una speranza condivisa, di esistenze vissute nell’intimità sacrale della coscienza, ovvero della propria identità che nel relazionarsi avverte di essere intenzionale e assoluta.
Materiali, oggetti, manufatti: l’arte nasce sul terreno del fare, e cioè della poesia, perché è intrinseco al fare umano il soffio stesso della poesia. Il soffio si nutre di vento che dal monte scende a valle. Quando l’artista porta ad unità simbolica e ideale il suo lavoro e la sua opera come risultato ed intuizione, si concretizza visivamente il momento poetico. “El Duca” compie il passaggio decisivo, eleva la sua fatica a creazione dello spirito, animando unitariamente il tutto, anzi avvolgendo dentro un simbolo che diventa la chiave di lettura, la via per avvicinare le sue intenzioni, ciò che egli ha voluto dire e rappresentare ed annunciare anche a noi. Quel simbolo è nel motivo ricorrente della spirale. Si poteva benissimo realizzare una croce ed un altare ed un’asta. L’idea di Bertarelli è stata di collegare ogni manufatto con questa linea che non è affatto lineare, che si avvolge e avvolge, che disegna nell’aria percorsi inediti indirizzando gli occhi dalla terra al cielo, dalla trincea al sacrificio, dall’offerta al dono, dal dolore alla gioia, dall’oscurità alla luce: la spirale del male è sopraffatta dalla spirale del bene.
Il problema dell’arte ha sempre generato tremendi e micidiali equivoci, perché spesso si scambia l’idea con la sua praticabilità. L’arte non è tale per le ineludibili difficoltà oggettive e tecniche che può presentare nelle sue realizzazioni, ma per l’idea che intende proporre e incarnare in un linguaggio intuitivo e non discorsivo. La linea contorta e a sviluppo continuo di Bertarelli non è qualcosa che sbalordisca per la sua originalità e difficoltà esecutiva, ma per la funzione che svolge: quella funzione di raccordo e di unità intenzionale, suggerita e non proclamata, sicchè tra croce, altare e bandiera si stabilisce un circuito virtuoso di pensieri e di immagini.
Con un ulteriore risultato: che l’affetto è più grande e più profondamente coinvolgente: la ragione che ci pone in tensione costante è sacrificio e gioia e libertà, affonda nelle nostre esistenze, nasce dalla terra, dal solco, dalla trincea, dal sudore, dal sangue, dalla sofferenza, dal pianto, eppure nulla là comprime definitivamente al suolo perché in quella ragione un linfa inestinguibile sale e porta vita, obbliga a gettare lo sguardo oltre la siepe, verso il cielo. Le stagioni del sacrificio schiudono gli orizzonti che nella memoria del passato coltivano la speranza del futuro.
Dentro questa metafora del vivere e del morire trovano il loro giusto posto i giorni della guerra sul Montozzo, sull’Adamello e su qualsiasi fronte: giorni non sterili se chi rimane ha la forza e il dono del rixordare, atto nel quale è il cuore che parla e porta dentro di sè la certezza di un destino che non si spegne e non muore mai.
Eugenio Fontana – 30 agosto 2008.
Alle spalle il bosco solitario dell’infanzia. Nel cuore la tradizione del pascolo e delle lunghe sere d’inverno consumate nell’intessere cestini e nel fabbricare oggetti e utensili di legno per la casa, con qualche concessione alla ricercatezza nella rifinitura di un particolare. Arte semplice, povera. Ma Arte. Nel futuro c’è la città frenetica dei sogni, il progetto del fare, del realizzare, le occasioni degi incontri decisivi, le aperture sulle avanguardie culturali. In questa polarità si svolge la vita e si colloca l’opera artistica dello scultore, con un imprevisto ritorno al mondo, fisico e spirituale, delle origini.
Il richiamo non è indulgenza ad un ritratto di bella maniera, ma premessa per accostarsi al linguaggio artistico e inscindibilmente umano di Guglielmo Bertarelli. Dall’orrizzonte incancellabile e nitido degli anni e delle esperienze vissute nei paesaggi immensi delle Dolomiti, Bertarelli ha portato ovunque, non solo il ricordo, ma la ragione profonda di una civiltà che nella scultura diviene essenziale rude e tenera poesia di quell’orizzonte. L’intagliare il legno, come per gli avi, è diventato in Guglielmo Bertarelli ricerca delle forme di vita dentro una materia che pare abbia perso definitivamente ogni forma di vita. Le sculture di Bertarelli nascono nel fuoco di un amore. Ama firmarsi, e non a torto, “el duca”. Perchè nell’animo è un principe. Perchè nel suo lavoro c’è la gioiosa conquista della vetta solitaria. Perchè nella sua Arte c’è lo spirito del creare.
Ma non basta. La naìvetée è un valore che si è alimentato ed è cresiuto nell’esperienza, nella disciplina del lavoro e della scuola, in giro per il mondo, partecipando a movimenti artistici, con amicizie fatte e disfatte. Conoscenza e frequentazione dei grandi. Soddisfazioni e insoddisfazioni. L’esilio e il ritorno.
Da sifatto umanissimo crogiuolo escono le opere di Bertarelli. Si caratterizzano, una volta liberato quel famoso tronco dalla sua desolata inermità, per un rigorosa ricerca di nuove forme di vita le quali, alimentandosi e abbeverandosi nei segni ancestrali, diventano piani geometrici che irrompono leggeri e definiti nello spazio, linee verticali che ricercano nella luce il respiro dell’aria. Struggenti figure umane essenzializzate in un abbraccio e che sanno donare. Linfa che sale dalla terra per essere ancora linguaggio civile, ricreando quel dialogo, o, forse meglio, quell’incontro tra natura e umanità, quell’intimo colloquio del grembo materno di cui gli artisti, questi geni isolati, sono gli ultimi (nel senso che aprono il cerchio) patetici testimoni. Guglielmo Bertarelli poteva seguire il corso dell’ampio fiume di mostre ed esposizioni nel quale ormai era incanalato, perchè si era fatto un nome, aveva stretto rapporti importanti. Ma più di una decina di anni fa ha deciso di sospendere, di interrompere, di piantar lì. Noi non sapremo mai quali impulsi si mettono in movimento nell’animo di un artista. Però, seppur dall’esterno, quella scelta non può essere vista se non come atto e decisione di libertà. Proprio perchè compiuto, tale atto è anche un porre le condizioni per ricominciare. E’ ciò che “El Duca” Guglielmo Bertarelli ha fatto e alla grande!
firmato prof Eugenio Fontana – critico d’arte